Raccontare con la fotografia i momenti salienti della propria vita, soprattutto, quelli che più hanno lasciato tracce profonde sulla nostra sensibilità individuale, non è cosa frequente, neppure nel variegato universo fotografico contemporaneo; raccontarli, poi, con la chiarezza, la fermezza e il necessario distacco, così come ha fatto la giovanissima autrice di questo interessante lavoro, è cosa assai meno frequente. Valentina Bernoni, infatti, esibendo un’asciuttezza di linguaggio, tipica del cronista più che del narratore, senza attardarsi in effimeri arabeschi, né ricercando accattivanti metafore, talvolta, mostrando anche qualche sottile ripetizione atta a produrre una puntuale segnatura, racconta a se stessa, innanzitutto, e poi al visitatore, una distaccata e cruda riflessione su un particolare momento della propria esistenza.
La sua narrazione, ridotta all’essenziale, rende ancora meglio l’efficace allegoria con la quale assimila quel particolare e transitorio luogo ad un’anticamera del purgatorio dove si è in attesa di ascendere ad un paradiso prossimo venturo, ma che, a ben guardare, lascia intravedere anche il rischio che quello stesso luogo, da simulacro di momentanea sala d’attesa, possa trasformarsi in eterno limbo. Ed è proprio l’apparente immobilità di quel mondo, che rappresenta al meglio quella sua particolare e momentanea condizione psicologica, a suggerirci tali considerazioni; un mondo freddo e immoto ben rappresentato con tagli perentori, duri controluce, scabre e geometriche ombre, e caratterizzato da scorci d’interni semibui, da scale quasi deserte e da tristi e misteriosi anditi che, ancor più, concorrono a sottolinearne l’atmosfera rarefatta.
Insomma, Valentina ci racconta la sua parentesi di vita universitaria praticata come un singolare luogo di transito della propria esistenza, un luogo momentaneamente adattato a sala d’attesa nella quale la sua dolorosa solitudine, che traspare, evidente, in ogni scatto, ne contrassegna il lento trascorrere del tempo, e dove le scale, i pianerottoli, gli anditi, rappresentano la terra di nessuno nella quale, in disparte e in abulica indifferenza, si resta nell’attesa d’un vago domani, forse, non ancora immaginato.