Avrei potuto fare di questo reportage una raccolta di foto in bianco e nero per poter accentuare il volto drammatico e poco romantico di chi vive una realtà cosi dura e crudele. Avrei potuto dare risalto a immagini dove lo squallore della miseria e della malattia schiaccia e rende impotenti. Avrei potuto riportare crudi documenti di un contesto sociale che se dovessimo vivere noi europei, cadremmo vittime della disperazione.
Ho invece scelto il colore per comunicare tutto questo, perché, comunque, il colore domina e avvolge. Il colore c’è nel paesaggio caldo e incantato, dalle lunghe distese di niente che si unisce con un magico nulla che ti porta a spaziare con la mente in contorte riflessioni.
Il colore c’è nei bambini, tanti, vivaci e colorati nei loro poveri panni, bambini che sembrano sbucare all’improvviso come cavallette e che ti vengono incontro, ti assalgono, cercano la tua mano, la stringono e poi si spingono tra loro per strappare la mano dell’altro e prendere la tua mano.
Il colore c’è anche intorno alla poca acqua sporca e portatrice di mortali malattie. Il colore c’è nei contenitori di acqua variopinti, piccoli, grandi e improvvisati e nelle situazioni che si creano intorno alla ricerca di acqua come necessità giornaliera per la sopravvivenza. C’è colore anche se si parla di morte, perchè per molti africani la morte è parte della vita, è solo una porta che si apre per entrare in un’altra stanza dove continuare a vivere per sempre.
La macchina fotografica può rivelare i segreti che l’occhio nudo o la mente non colgono, sparisce tutto tranne quello che viene messo a fuoco con l’obiettivo. La fotografia è un esercizio d’osservazione.